Nel 2021, la BCE ha comprato oltre 150 miliardi di euro di titoli del debito pubblico italiano, pari a oltre il 90% del deficit. Nel 2020, gli acquisti erano stati per 175 miliardi, coprendo interamente il deficit dell’anno. Per il 2022, sebbene a marzo sia prevista la conclusione del programma temporaneo di acquisti legati alla crisi pandemica (PEPP), la BCE acquisterà oltre 60 miliardi di titoli, pari al 60% del deficit previsto.
Questa apparente “abbondanza” ha trasformato il debito in un problema rimosso, mentre proprio l’entità dei sostegni giunti direttamente dalla Banca Centrale al bilancio pubblico nazionale – anche lasciando da parte i fondi del Next Generation Eu – dimostra al contrario che il debito è, più che in passato, il principale problema politico italiano e l’elemento di fragilità, a cui si legano molte altre debolezze economiche e sociali.
Non c’è stato alcun cambio di paradigma economico-finanziario, che abbia reso la dinamica del debito irrilevante. Con il probabile e necessario rialzo dei tassi di interesse, e con il ritorno a un Patto di Stabilità, magari riveduto e corretto, ma non privo di vincoli e condizionalità, verranno al pettine i nodi, a partire da quello di una macroscopica iniquità generazionale nell’uso delle risorse pubbliche, di cui proprio il debito è la principale espressione.
Il debito pubblico è, infatti, la forma economico-politica previlegiata della truffa consumata a danni delle giovani generazioni e delle generazioni dei non ancora nati. Debito oggi significa più tasse o più tagli domani. Del benessere presente, spesso fittizio e caduco, pagheranno il conto i contribuenti futuri. La generalità delle forze politiche insiste perché il debito continui a finanziare spese improduttive, cioè a comprare consenso, aggravandone quindi il peso, a fronte di una crescita stagnante. In questo senso la politica del consenso comprato, del voto di scambio istituzionalizzato e legalizzato, della democrazia in deficit crea un deficit di opportunità ed equità (e quindi anche di libertà) per le future generazioni; nel 2018 il 32% delle tasse versate dai contribuenti IRPEF andava in pensioni ed interessi sul debito.
Vi è una questione di equità tra generazioni che è in primo luogo una questione di uguaglianza nella libertà. I giovani dovranno farsi carico di oneri fiscali e contributivi oppressivi. Non saranno semplicemente gravati da un peso maggiore di quello portato dalle generazioni precedenti. Saranno meno liberi e meno fiduciosi nel proprio futuro. E questo comporterà un ulteriore deterioramento demografico. Una spesa pubblica e un welfare sbilanciato sulle generazioni più anziane e una condizione di minacciosa incertezza per le generazioni più giovani hanno effetti congiunti e depressivi sulla natalità, che in prospettiva rendono il Paese meno competitivo e il debito meno sostenibile. Un circolo vizioso in piena regola.
Se guardiamo ai dati sulla diseguaglianza in Italia, negli ultimi decenni il reddito dei 60-64enni è cresciuto molto di più rispetto al reddito dei 30-34enni. Negli ultimi quindici anni l’incidenza della povertà nella fascia dei giovani tra i 18 e 34 anni è quasi quadruplicata, sfiorando il 10% del totale. I cosiddetti millennials risultano più poveri del 17% rispetto alla generazione precedente.
In tutto ciò, tuttavia, l’intervento dello Stato appare illogico e incoerente con la realtà dei fatti: secondo il rapporto ISTAT del 2017 sulla redistribuzione del reddito in Italia, dopo l’intervento dello Stato, che mitigava il rischio di povertà, già più basso, nelle classi di età più avanzate, i giovani vedevano peggiorare la propria situazione. Infatti, l’intervento dello Stato non andava a diminuire, bensì ad aumentare il rischio di povertà per i giovani: dal 19,7% al 25,3% dopo l’intervento pubblico per la fascia 15-24 anni e dal 17,9% al 20,2% per la fascia 25-34 anni. È il risultato di un sistema welfare obsoleto e incentrato sulle pensioni.
Il sacrificio dei giovani è poi emblematicamente rappresentato dalla spesa pubblica per l’istruzione, che dopo la crisi del 2008 è diminuita in misura molto superiore a quanto sarebbe dovuto avvenire in base al calo demografico, aggravando il divario con gli altri paesi europei. Oggi l’Italia è il Paese Ue che dedica all’istruzione la minore percentuale di spesa pubblica ed è agli ultimi posti anche nel rapporto tra spesa per istruzione e Pil, con fenomeni di sotto-finanziamento particolarmente drammatico per l’università.
Più che fare politiche “per i giovani”, bisognerebbe quindi smettere di fare politiche “contro i giovani”. Un debito pubblico insostenibile, un welfare iniquo e gerontocratico, una spesa per istruzione taglieggiata sono le direzioni di marcia sbagliate di una politica regressiva dal punto di vista sociale e generazionale. Occorre invertire la rotta.