«La più completa ed essenziale definizione che si può dare della mafia, crediamo sia questa: la mafia è un’associazione per delinquere, coi fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si impone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato».
Questa storica definizione di Leonardo Sciascia ci aiuta a comprendere la gravità politica e non solo criminale del fenomeno mafioso e, in genere, di ogni forma di delinquenza organizzata che, attraverso il controllo del territorio, giunge a controllare o condizionare direttamente la società e l’economia legale.
Nel nostro Paese si è lungamente discusso dei rapporti tra politica e mafia e quindi anche tra Stato e mafia in modo sempre più ideologico, ravvisando la “politicità” della mafia nelle sue relazioni con rappresentanti delle istituzioni politiche e dello Stato.
Il problema è che, al di là delle contiguità e delle compromissioni dimostrate o ipotizzate tra il potere politico e quello criminale in molte aree del Paese, il fenomeno mafioso è politico “in sé”, senza neppure bisogno di associare o ricattare i politici, perché, come ricordava Sciascia, esercita una intermediazione diretta e parassitaria tra i diritti riconosciuti dalla Costituzione e dalla legge e il loro concreto esercizio e godimento.
Come una sorta di “Stato parallelo” le organizzazioni mafiose dettano leggi, impongono tasse e emettono sentenze su persone e attività che non sono mafiose, né per questo lo diventano, ma che sono in ogni caso sottoposte al potere politico mafioso.
Il peso politico della mafia, cioè la sua capacità di orientare i comportamenti collettivi, di suscitare obbedienza e adesione a codici sociali diffusi e per essa vantaggiosi (tipicamente: l’omertà) e di imporre e applicare inflessibilmente la sua “legalità criminale”, è superiore al peso economico delle attività direttamente illegali (traffico di droga, sfruttamento della prostituzione e contrabbando di sigarette, che l’Istat stima in Italia intorno ai 19 miliardi di euro), anche se ovviamente il “fatturato” delle organizzazioni mafiose non si ferma alle sole attività illegali.
Poiché la mafia perverte il rapporto tra il cittadino e lo Stato e crea un sistema di consenso imposto e coatto, l’impegno antimafia è a tutti gli effetti una lotta per la libertà politica.
L’attività di repressione è ovviamente essenziale e indispensabile per arginare il fenomeno mafioso, ma anche i notevoli successi conseguiti, in particolare rispetto a Cosa Nostra, non hanno significativamente ridotto la diffusione del controllo mafioso del territorio in molte aree del Paese, con una migrazione verso Nord che proprio Sciascia aveva previsto decenni fa.
L’impressione è che, a volte, decapitare i vertici di una organizzazione agisca come un principio di selezione naturale all’interno del mondo mafioso, sostituendo ai perdenti nuovi attori con una migliore capacità adattiva. Non si vogliono ovviamente sminuire i risultati straordinari dell’attività repressiva, ottenuti a prezzo di un esemplare sacrificio personale di molti servitori dello stato, in primo luogo magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine. Ma bisogna prendere atto dei divari crescenti tra le varie parti del Paese, con fenomeni di vera e propria desertificazione economica e demografica delle aree più degradate, e della permanenza di condizioni di illegalità endemica proprio in corrispondenza delle aree a più forte penetrazione criminale.
Il potere mafioso può dunque essere prevenuto e contrastato con una idea, non solo repressiva, della legalità che limiti i fattori predisponenti dell’intermediazione criminale e renda l’ambiente sociale più refrattario alla sua endemizzazione.
Tutto questo è tanto più vero oggi, visto che all’Italia e al sud in particolare arriveranno ingenti risorse pubbliche collegate al PNRR. L’attività legislativa, esecutiva e amministrativa deve essere orientata ad azioni coraggiose di prevenzione. Tutta l’azione di rilancio della crescita del Paese va immaginata contemporaneamente anche come azione di contrasto alla criminalità organizzata. Quanto più i fondi che giungeranno non saranno intercettati e inglobati dall’intermediazione mafiosa, tanto più il loro moltiplicatore sarà alto e il rafforzamento economico delle aree più marginali le renderà in prospettiva meno attaccabili dal potere criminale.
Le misure di prevenzione non sono necessariamente poliziesche o burocratiche. Non è moltiplicando i livelli di controllo, gli adempimenti, le interdizioni e i filtri amministrativi che, come l’esperienza insegna, si evita alla mala pianta mafiosa di attecchire sul terreno concimato dalla spesa o dagli investimenti pubblici. Al contrario si può sperare che ampliando la trasparenza e la competitività delle procedure di accesso a questi fondi, senza istituire direttamente o indirettamente “riserve locali”, sarà possibile spezzare il collegamento tra la spesa pubblica e l’intermediazione mafiosa.
Se faremo funzionare il mercato in modo normale, faremo una politica antimafia che darà buoni e duraturi risultati. Se le mafie mettono al centro il denaro come segno di un potere riconosciuto, la lotta alla mafia mette al centro le persone, cioè i lavoratori e le imprese, con i loro diritti e le loro legittime aspettative di emancipazione sociale e di affermazione economica. Se la mafia promuove “cartelli” e genera concorrenza sleale, alterando il mercato, un modello politico antimafia promuove la trasparenza, una piena e diffusa legalità e regole chiare di accesso al mercato per tutti.