L’Italia ha tutte le risorse per diventare la prima grande nazione alimentata ad energia pulita e a impatto zero sull’ecosistema. Ha abbondanza di sole, un buon potenziale dal vento, boschi in rapida crescita e un robusto parco di dighe. È stata pioniera nella fissione dell’atomo ed è all’avanguardia nel mondo per gli impianti di riciclo. Inutile aggiungerlo, ha tutto l’interesse a dipendere il meno possibile dall’estero per petrolio, metano e altre materie prime, di cui la sorte l’ha resa povera.
L’Italia ha anche tutto l’interesse a mettersi alla testa della lotta globale al cambiamento climatico, che è la “corsa allo spazio” dei nostri tempi. Siccità, scarsità d’acqua, eventi climatici estremi con frane e alluvioni, spiagge sommerse, incendi, fusione dei ghiacciai la minacciano già oggi, e tra due generazioni l’avranno resa irriconoscibile. Per non parlare dei milioni di profughi dai paesi africani che avranno subìto poco prima la stessa sorte, e che investiranno lo Stivale in numero mai visto.
Diversa, ma altrettanto strategica, è la lotta per la qualità dell’aria. La Val Padana, per la sua conformazione naturale, è una trappola tossica dove gli agenti inquinanti ristagnano più a lungo che in qualsiasi altro luogo d’Europa, con visibili effetti su tumori e malattie cardiache. E lo stesso vale per l’acqua: nel nostro Mar Mediterraneo fra vent’anni ci sarà (letteralmente) più plastica che pesce.
Ma al di fuori dei nostri confini potremmo fare ancora più che sul nostro territorio. Oggi un euro di ricchezza prodotto in Cina inquina il triplo di uno prodotto in Italia. Per evitare che anche altri giganti, come l’India e l’Africa, perseguano con metodi inquinanti la propria legittima aspirazione ad arricchirsi, non possiamo limitarci alle maniere forti come l’adeguamento dei prezzi alla frontiera introdotto dall’UE: serve un massiccio trasferimento intercontinentale di tecnologia, competenza, innovazione. Noi possiamo esserne protagonisti (pensiamo al campo dell’alimentazione, dove il nostro soft power non ha pari).
Di fronte a prospettive così lusinghiere, appare ancora più triste l’auto-sabotaggio che l’Italia si è inflitta per decenni sulle politiche ambientali, a tal punto che oggi non riesce a fare nemmeno i “compiti a casa” del PNRR.
Abbiamo rinunciato all’energia atomica che tanto doveva agli scienziati italiani, abbiamo impantanato nella burocrazia la diffusione di eolico e solare, abbiamo aggredito con inchieste-spettacolo gli impianti di riciclo, abbiamo creato comitati di bulli di quartiere contro qualsiasi foglia che si muovesse.
Abbiamo imbalsamato il Belpaese così com’era uscito dal ‘900, con le centrali a carbone e le palazzine abusive, le palizzate di antenne sui tetti e i tir che portavano i rifiuti all’estero. Perché in fondo quel paese ci rassicurava. Per citare Montaigne, “abbiamo preso l’abitudine e l’abbiamo chiamata natura”, per poi opporci, in difesa della “natura” che in realtà era l’abitudine, a qualsiasi cambiamento anche benefico per l’ambiente.
Le forze politiche e i media hanno spesso avuto sulla bocca la parola “ambiente”, ma ne hanno fatto un uso pretestuoso. Il loro vero obiettivo non è mai stato trovare strategie efficaci per ridurre l’inquinamento e l’effetto serra: è stato sempre e solo costruire narrazioni conservative, per fare leva sul lato bilioso, diffidente e provinciale di noi elettori e fare il pieno di consensi a costo zero.
L’infatuazione per le rinnovabili è stata funzionale a screditare il metano e il nucleare. L’infatuazione per il paesaggio, a sua volta, ha screditato le rinnovabili, che oggi richiedono da quattro a sette anni di autorizzazioni soltanto per aprire il cantiere (alla faccia del conto alla rovescia per la fine del mondo!). La raccolta differenziata è stata spacciata per un’alternativa sia alle vecchie discariche che ai nuovi impianti di incenerimento, gassificazione, compostaggio o biodigestione: come se i rifiuti, una volta differenziati, potessero smaterializzarsi e non finire da nessuna parte.
L’auto a diesel è stata profumatamente sovvenzionata perché era meno tossica di quella a benzina, ma di lì a dieci anni già si sovvenzionava l’auto elettrica, mentre quella a diesel diventava il male. E se dovessero circolare troppe immagini delle cave di litio e di rame che devastano gli ecosistemi dei paesi poveri per le auto elettriche di quelli ricchi, niente paura: c’è sempre la carta bicicletta e sharing mobility. Credibilissima per un popolo in rapido invecchiamento e che vive per due terzi in provincia.
Insomma: l’Italia oggi è paralizzata da una sorta di grottesca guerra di religione, con l’ambiente a fare da divinità, nel nome della quale si può mettere all’Indice qualunque innovazione: soprattutto quelle introdotte nel nome dell’ambiente stesso.
Preoccupata da questa paralisi, la parte più avveduta della nostra classe dirigente ha fatto ricorso all’unico strumento che le era familiare: la pianificazione dall’alto. Dal PNIEC ai bonus edilizi, governi e burocrazie ministeriali hanno scelto su quali cavalli puntare per sviluppare la green economy, deviando gli investimenti dei cittadini in una direzione scelta sulla base di dati vecchi, di bracci di ferro tra le Regioni e di interessi di partito.
L’effetto è stato risibile rispetto alle risorse sperperate, e il paese ha contratto una seconda malattia invalidante che si è aggiunta alla prima. Ancora adesso, per tenere dietro agli obiettivi europei del PNRR, Draghi e Cingolani varano norme su norme per aiutare il governo a sbloccare dall’alto i cantieri bloccati dagli enti territoriali. Invece di far funzionare il motore, si dà ormai per scontato che non funzioni e si velocizza l’invio del carro attrezzi.
Bisogna invece fare l’opposto. Archiviare la stagione delle ricette miracolose imposte dall’alto. Rendere fluida e spontanea la partecipazione di aziende e cittadini alla transizione verde, che è – ripetiamo – la “corsa allo spazio” della nostra epoca.
Invece di mandare un carro attrezzi più veloce, bisogna riparare il motore della green economy italiana e oliarne i meccanismi interni in modo che possa camminare da sé.
Lo strumento principe per farlo è il Codice Verde: una corsia preferenziale per dare tempi certi e regole chiare a chi investe in un grande impianto rinnovabile o in altre opere utili all’ambiente. Simbolicamente, la norma dovrebbe entrare nel Codice degli Appalti dopo l’articolo che disciplina le opere “di somma urgenza”, ovvero quelle contro i terremoti e altri disastri naturali.
L’Unione Europea ci ha fatto un prezioso regalo con la sua Tassonomia, che dà le coordinate per capire quali siano gli “investimenti verdi”: sono quelli che producono un kilowattora di energia con meno di cento grammi di anidride carbonica senza causare “altri danni significativi”.
Nella Tassonomia rientrano quindi senza problemi l’eolico marino, il fotovoltaico su terreni incolti, l’agrivoltaico, il biometano, il nucleare, le centrali a gas con cattura del carbonio, l’idrogeno da elettrolisi o da biomasse. Per avere energia al 100% pulita e rinnovabile queste fonti ci occorrono tutte, ma rispetto alla palude attuale sarebbe un successo già includerne nel Codice Verde tre o quattro.
Un’altra mossa vincente, per impianti di taglia minore, può essere la formazione di tecnici per favorire e assistere la nascita di comunità energetiche, specialmente nei piccoli centri del Sud dove l’investimento avrebbe un ritorno maggiore. Tante altre idee si possono mettere sul tavolo, purché la filosofia sia sempre quella: mettere aziende e cittadini in grado di fare la loro parte, senza più guerre di religione o boicottaggi interessati.
Solo così l’Italia tornerà se stessa e sarà capofila nella sfida climatica, dentro e fuori dai suoi confini.